Capire chi ho di fronte: la relazione etica con il cliente

Capire chi ho di fronte: la relazione etica con il cliente

…e visse infelice e scontento. Sì, questa è la triste storia del “venditore” che confidando nella sua esperienza e nelle sue innate e spiccate doti intuitive, sapeva sempre giudicare e capire chi aveva di fronte.

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Capire chi ho di fronte: è solo una questione di esperienza?

Non si può escludere il fatto che alcune intuizioni siano effettivamente corrette. Siamo animali empatici e quindi in grado di cogliere molta parte degli aspetti emotivi vissuti dai nostri simili. Quello che è meno probabile invece è riuscire a determinare le caratteristiche di chi ci sta di fronte nel corso di un appuntamento o di una attività lavorativa in genere.

Ci sono molte attribuzioni ingenue che effettuiamo nel corso della nostra vita confidando molto nelle nostre percezioni. Il problema non sta nelle percezioni ma nei significati che ad esse vengono attribuiti. Se ad esempio, incontro una persona con la quale mi trovo a disagio fin dai primi istanti l’attribuzione ingenua di quello stato è al comportamento dell’altro anziché alla mia. Incapacità di gestione delle mie emozioni piuttosto che dei miei comportamenti: è l’altro che è troppo formale e quindi mi dà fastidio. Quindi quello sbagliato è lui. Etichettato e scartato.

Non mi pongo neppure per un attimo nella condizione di riflettere sul fatto che quel modo proposto dall’altro non trova nel mio repertorio comportamentale una risposta adeguata grazie alla quale sentirmi a mio agio. È molto più facile attribuire la negatività all’altro che ad una mia inabilità specifica. Il motivo di questo disimpegno è dato dal timore del giudizio negativo verso se stessi.

Capire chi ho di fronte: la precezione etica di sé

Siamo immersi costantemente all’interno di un mondo altamente giudicante fin dalla nostra nascita: dovevamo essere all’altezza di fratelli e cugini, delle aspettative esaltanti dei nostri genitori per sollevarli dalle loro frustrazioni personali; siamo stati allevati in situazioni di continua dimostrazione del nostro valore scolastico, sportivo, estetico e sociale. Belli, bravi e intelligenti. Ma per chi? Per cosa? Qual è il vero obiettivo di tutto questo?

Non sono quesiti semplici ma certamente qualche indicazione possiamo averla a disposizione. I fondamentali studi di Piaget sui comportamenti e sull’evoluzione infantile hanno segnato un punto fondamentale nella conoscenza di molti aspetti legati all’evoluzione psicologico-comportamentale del futuro adulto.

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In particolare ha indicato due tappe fondamentali della percezione etica di sé del bambino (da lui più ampiamente e genericamente indicata come morale): fino all’età di sei/sette, anni il bambino vive una fase di etica eteronoma, ovvero tutto ciò che viene indicato come adeguato dall’autorità genitoriale viene accettato come riferimento comportamentale. Successivamente inizia una fase molto faticosa di confronto con l’esterno e, progressivamente, il bambino assume un riferimento etico autonomo, che viene rielaborato in forma di successo e accoglienza positiva da parte di coetanei e soggetti esterni al nucleo di origine, ovvero la famiglia. In altri termini il giudizio degli altri comincia a diventare un fattore discriminante tra ciò che è buon e ciò che non lo è.

A grandi linee, il nostro venditore di cui sopra ha incominciato a credere in modo sempre più determinante nell’importanza del giudizio ma anche del giudicare. Infatti la trappola nella quale cade facilmente è quella di giudicare rapidamente gli altri come una forma di difesa, sia nei confronti del loro giudicare, sia il termini di assunzione di comportamenti adeguati. Da qui tutta una serie di storture percettive e di azione.

La paura di non essere adeguati è il retaggio psicologico di situazioni passate nelle quali il confronto con alcuni comportamenti di altri ci ha visto in difficoltà o in difetto. Ogni volta che incontriamo i segnali di alcuni comportamenti reagiamo meccanicamente allo stesso modo: tagliamo fuori il pericolo con un giudizio negativo verso la fonte. In buona sostanza giudichiamo per paura. Il meccanismo ha una sua validità biologico-evolutiva importante: sapere giudicare il pericolo fisico è sinonimo di sopravvivenza e quindi siamo stati progettati per continuare a sopravvivere e pertanto a giudicare adeguatamente il rischio.

Capire chi ho di fronte: interagire, non giudicare

Ma qual è il pericolo fisico che corre un commerciale durante un appuntamento? Al massimo, se si comporta male, può ricevere qualche insulto; non muore e soprattutto potrebbe imparare che alcuni comportamenti sono poco utili se non addirittura sbagliati. In realtà il problema sottostante è l’incolumità del proprio ego che, se ferito dal confronto sminuente con l’altro, rischia di non riprendersi più. Pertanto molto più semplice andare all’attacco con un giudizio “protettivo” e risolvere la questione.

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Risolvere? Non proprio. In realtà quello che si rischia è di mancare di cogliere importanti possibilità e di vivere una vita molto tesa e difficoltosa nei rapporti. Una vita fatta di sfide e confronti che rischiano di non portare da nessuna parte se non ad un clamoroso fallimento personale.

Ha quindi senso giudicare e temere il così tanto il giudizio dell’altro? Sembrerebbe proprio di no . Fino a quando non si accetta l’idea di non essere in competizione costante con il resto del mondo ma, al contrario, all’interno di un sistema il cui miglior tessuto è quello collaborativo, non si smette di essere giudicanti e giudicati con conseguenti disagi e conflittualità. Cosa fare allora? Sospendere il giudizio e concentrarsi sul vero obiettivo: interagire con l’altro.

Claudio Casiraghi